I paesi dell’Unione Europea sono ancora lontani dall’obiettivo – fissato per il 2030 – di garantire aree a protezione integrale nel 10% del loro territorio: un traguardo ambizioso, pensato per proteggere la biodiversità e invertire il degrado degli ecosistemi. L’Italia è al quinto posto tra i paesi più virtuosi, dietro Lussemburgo, Svezia, Finlandia e Lettonia, ma si ferma appena sopra la metà dell’obiettivo, con il 5,1% del suo territorio a cui è garantita una protezione integrale.
A realizzare l’analisi – pubblicata sulla rivista Biodiversity and Conservation – è stato un gruppo internazionale di ricercatori, guidato da studiosi dell’Università di Bologna. Si tratta della prima ricerca a livello europeo sulle aree rigorosamente protette, che l’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN) classifica come riserve integrali, aree wilderness e parchi nazionali. Si tratta di aree nelle quali l’ambiente naturale è conservato nella sua integrità e l’intervento umano è molto limitato. Gli studiosi hanno indagato su tutto il territorio della UE quanto è estesa la protezione integrale a livello di regioni biogeografiche, di singoli paesi e di gradienti di elevazione.
“Dalla nostra analisi emerge che con le sole eccezioni del Lussemburgo e della Svezia, e con la Finlandia che si avvicina molto, nessun altro paese dell’Unione Europea raggiunge l’obiettivo del 10% di protezione rigorosa dei suoi territori”, spiega il professor Roberto Cazzolla Gatti, biologo della conservazione al Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali dell’Università di Bologna e primo autore dello studio. “C’è quindi ancora molto lavoro da fare per garantire la conservazione della biodiversità, attraverso una rigorosa azione di cooperazione internazionale tra i paesi e l’impegno dei singoli stati all’individuazione di aree nazionali da destinare a protezione”.
La distruzione, il degrado e la frammentazione degli habitat sono le principali cause della perdita di biodiversità e stanno innescando la sesta estinzione di massa. Oggi, escludendo l’Antartide, più del 70% delle terre emerse e circa il 90% degli oceani è stato alterato dalle attività umane. In Europa, non è rimasta nessuna singola area contigua superiore a 10.000 chilometri quadrati priva di impatti umani. Tuttavia, esistono ancora aree con alta selvaticità ed ecosistemi piuttosto integri, presenti prevalentemente all’interno di aree protette.
Nel maggio 2020 è stata firmata la “Strategia europea per la biodiversità per il 2030”: un piano ambizioso per proteggere la biodiversità e invertire il degrado degli ecosistemi. Con questa strategia, l’Unione Europea mira ad espandere la rete delle aree protette fino al 30% del suo territorio, applicando una protezione integrale del 10% della superficie terrestre e marina per tutti i paesi UE. Il raggiungimento di questo obiettivo è una tappa fondamentale per arrivare alla conservazione a lungo termine dei processi ecosistemici e al mantenimento di alti livelli di biodiversità.
Per capire a che punto siamo, gli studiosi hanno quindi analizzato le diverse aree protette europee, andando a quantificare per ogni paese la percentuale di territorio a cui è assicurata una protezione integrale. A parte il caso particolare del Lussemburgo, che supera il 35% di territorio con protezione integrale, l’unico altro paese che raggiunge l’obiettivo del 10% è la Svezia, con la Finlandia molto vicina. L’Italia è al quinto posto, con il 5,1% di territorio a protezione integrale, mentre Francia e Germania sono in fondo alla classifica, con meno dell’1%.
Non solo: dall’analisi è emerso che buona parte dei territori protetti si trovano in luoghi già di per sé meno soggetti a disturbi da parte dell’attività umana. Ci sono ad esempio molti casi di protezione integrale per le fasce montuose ad alta quota, mentre sono pochissime le aree strettamente protette a bassa quota e in pianura.
“Proteggere le zone di alta quota è certamente importante, ma sarebbe necessario prestare attenzione alla tutela integrale di aree in pianura e collina”, dice Cazzolla Gatti. “La nostra proposta è che l’allargamento delle aree con protezione integrale sia in linea con l’obiettivo di preservare la biodiversità e gli ecosistemi sull’intera gamma di condizioni geografiche ed ecologiche che si trovano nel territorio europeo”.
Lo studio rileva, inoltre, che lo scenario attuale potrebbe essere persino peggiore di quello rappresentato, perché la gestione di alcune aree protette, come le zone periferiche dei parchi nazionali, non corrisponde sempre a una protezione integrale. Alcuni parchi nazionali, infatti, pur essendo classificati come strettamente protetti, consentono in alcune aree un’ampia gamma di attività, come la silvicoltura, l’agricoltura, la caccia o il pascolo di animali domestici.
“Secondo la Commissione Europea, le aree strettamente protette sono completamente e legalmente preservate, designate per la conservazione o il ripristino dell’integrità delle aree naturali ricche di biodiversità e dei processi ambientali naturali: all’interno di queste aree tutte le attività industriali, estrattive e distruttive che disturbano le specie e gli ecosistemi come l’estrazione mineraria, la deforestazione, l’acquacoltura e l’edilizia, non dovrebbero essere consentite”, dice Alessandro Chiarucci, direttore del Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali dell’Università di Bologna e coordinatore dello studio. “Le aree protette in modo rigoroso devono essere viste come dei luoghi in cui i processi ecologici ed evolutivi sono lasciati sostanzialmente indisturbati, per garantire la persistenza della biodiversità; pertanto è necessario che in queste aree le attività umane siano limitate e ben controllate, permettendo il naturale sviluppo dei processi naturali”.
Per raggiungere gli obiettivi fissati dalla Strategia UE 2030 per la biodiversità, ogni paese membro deve quindi individuare un numero sufficiente di territori per arrivare al traguardo del 10% di aree da proteggere integralmente. Un’opzione potrebbe essere il passaggio ad un approccio di conservazione più rigoroso per le aree che già oggi sono sottoposte a un livello di protezione inferiore. È il caso, ad esempio, delle aree Natura 2000 – la rete ecologica europea per la conservazione della biodiversità – che mostrano attualmente una copertura paesaggistica abbastanza buona, ma una protezione rigorosa molto bassa nella maggior parte dei paesi e in molti parchi nazionali.
“Sarebbe necessario identificare aree potenziali per espandere la protezione integrale con bassi costi economici e sociali, comprese ad esempio zone con un alto valore di biodiversità, ma bassa popolazione e sfruttamento del territorio”, conferma Cazzolla Gatti. “Considerando però che in Europa la maggior parte del territorio è stato profondamente modificata dall’uomo, le aree rigorosamente protette dovrebbero comprendere anche territori che attualmente hanno uno status di protezione più basso, come la Rete Natura 2000, e che possono recuperare il loro valore di biodiversità attraverso il ripristino e il rewilding”.
Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Biodiversity and Conservation con il titolo “Analysing the distribution of strictly protected areas toward the EU2030 target”. Per l’Università di Bologna hanno partecipato Roberto Cazzolla Gatti, Piero Zannini, Nicola Alessi, Michele Di Musciano, Jacopo Iaria, Duccio Rocchini e Alessandro Chiarucci, tutti attivi al Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali.