Uno studio dei ricercatori della Struttura Complessa di Ematologia dell’Azienda Ospedaliero – Universitaria di Modena dimostra, per la prima volta al mondo, la genesi di una rara forma di epatite acuta a cellule giganti, risoltasi con successo, che si manifesta anche in trapiantati sottoposti a trattamento immunosoppressivo per ridurre il rischio di rigetto.
L’interesse della comunità scientifica per questa scoperta, che può aprire interessanti prospettive anche in altri ambiti, è confermato dalla pubblicazione dei risultati cui sono giunti i ricercatori modenesi sul New England Journal of Medicine.
In pratica i ricercatori del Policlinico hanno descritto il primo caso di infezione da virus erpetico umano sesto (HHV-6) di tipo A in un paziente trapiantato di fegato, già portatore di infezione latente da HHV-6 di tipo B. L’infezione primaria ha provocato la comparsa di una rara forma di epatite acuta a cellule giganti, che si è risolta solo dopo il trattamento prolungato con antivirali per la durata di un anno.
“La grande maggioranza della popolazione sana (circa il 90%) è portatrice dell’infezione senza che questa dia problemi clinici. Quando, però, un paziente è sottoposto a terapia immunosoppressiva, come è nel caso dei trapiantati di fegato, può accadere che il virus si risvegli provocando disturbi – spiega il Professor Mario Luppi, Ematologo, coordinatore dello studio – Nel caso studiato dai ricercatori modenesi, l’epatite non si è sviluppata a causa della riattivazione del virus già presente nel suo organismo. L’interrogativo, quindi, che ci siamo posti come ricercatori, ha riguardato come è potuto succedere che il paziente abbia sviluppato l’epatite. La risposta l’abbiamo individuata nell’organo donato che è risultato essere infettato da una variante rara dello stesso virus”.
“Tale osservazione suggerisce che i riceventi un organo solido, sottoposti a trattamento immunosoppressivo per ridurre il rischio di rigetto, sono, seppur raramente, a rischio di essere re-infettati con varianti o ceppi diversi dello stesso virus, che non può essere eliminato a causa appunto della ridotta capacità delle risposte linfocitarie antivirali dell’organismo ospite – continua il Professor Mario Luppi, Ematologo, coordinatore dello studio – Ne consegue la necessità di implementare lo screening dei donatori ma, soprattutto, la sorveglianza ed il monitoraggio di possibili casi di infezione primaria o di riattivazione anche di varianti rare di HHV-6 nei riceventi di organo solido, al fine di consentire l’instaurazione tempestiva di una terapia con antivirali, e laddove possibile, anche la modulazione e riduzione della terapia immunosoppressiva anti-rigetto per favorire un recupero dell’immunità anti-virale dell’organismo ospite”.
La scoperta della causa dell’epatite a cellule giganti è importante perché non colpisce solo i pazienti trapiantati di fegato ma, sebbene raramente, anche la popolazione generale, specie pediatrica. “Si potrebbe ipotizzare che questa epatite derivi dallo stesso virus almeno per un certo numero di casi anche nei bambini. L’ HHV-6, infatti, è un virus diffuso a livello mondiale, causa della sesta malattia con manifestazioni cutanee (esantematica) dell’età pediatrica (exanthem subitum) e normalmente convive con l’organismo umano senza causare problemi – racconta ancora Luppi – La nostra scoperta suggerisce che nei casi di epatite a cellule giganti nella popolazione pediatrica questo virus debba essere accuratamente ricercato per prevenire ulteriori più gravi conseguenze”.
Inoltre, in pazienti affetti dall’infezione da HIV e nei pazienti trapiantati, il virus può causare severe malattie acute, come ad esempio l’encefalite. “Finora, si pensava che la variante A di HHV-6 non avesse la capacità di indurre una malattia nell’uomo. Il nostro studio, invece, suggerisce che l’infezione da parte di entrambe le varianti di HHV-6 sia A che B, deve essere ricercata in pazienti che presentino una sindrome clinica in cui si sospetti una causa virale”. Prosegue Luppi.
Questa forma di epatite era già nota e circa quindici anni fa, sulla medesima rivista, un gruppo di ricercatori americani aveva suggerito potesse essere causata da virus, ed in particolare da un paramyxovirus, utilizzando le classiche metodiche di microscopia elettronica, senza tuttavia produrre una evidenza formale conclusiva.
Lo studio degli Ematologi modenesi aggiunge una ulteriore decisiva prova a favore di una genesi virale di questa rara forma di epatite, dimostrando la presenza di un virus diverso, appartenente alla famiglia dei virus erpetici. “Questo successo è il risultato di un lavoro svolto da circa venti anni dal nostro gruppo di ematologia – spiega il professor Giuseppe Torelli, direttore della Struttura Complessa di Ematologia – rivolto allo studio della patogenesi delle malattie virali sia di tipo non neoplastico (aplasie midollari, citopenie, epatiti, polmoniti etc.) che di tipo neoplastico, come il sarcoma di Kaposi, causato da un altro virus erpetico (HHV-8) ed i linfomi, causati dal virus di Epstein Barr, dal virus dell’epatite C e raramente, anche dallo stesso HHV-6. Il lavoro del nostro gruppo si basa su una integrazione stretta, direi quotidiana tra il laboratorio e la clinica, ed ha lo scopo di produrre ipotesi di lavoro sperimentale per la soluzione di problemi clinici pratici). I colleghi del laboratorio hanno condiviso con il nostro gruppo di lavoro la passione per l’investigazione clinica (clinical investigation) accettando la sfida di ricercare la causa di un evento clinico raro ed apparentemente non spiegabile con le metodiche di routine”.
Questo studio fa parte del Progetto Regione Emilia Romagna-Università, coordinato dal professore Giuseppe Torelli, Direttore Dipartimento Integrato di Oncologia, Ematologia e Malattie dell’Apparato Respiratorio, Azienda Ospedaliero – Universitaria di Modena, che si propone di sviluppare e validare, nei prossimi tre anni le più innovative metodiche di diagnosi molecolare ed immunologica delle infezioni virali e da funghi nei pazienti trapiantati di organo solido e di midollo osseo/staminali periferiche, al fine di migliorare la cura delle complicanze infettive in questo gruppo così delicato di pazienti. “I risultati cui sono giunti i nostri ricercatori segnano un primo positivo traguardo dell’importanza di sviluppare la ricerca sanitaria e soprattutto dimostrano la validità e l’efficacia dei progetti selezionati dalla regione nell’ambito del cospicuo finanziamento (oltre 5 milioni di Euro) destinati dalla Regione a sostegno di progetti di ricerca clinica, appannaggio del nostro Policlinico e testimoniano altresì l’impegno e la qualità posti dai nostri ricercatori nello sforzo per incrementare e migliorare la cura e l’assistenza”. Commenta il dottor Stefano Cencetti, direttor generale dell’Azienda Ospedaliero – Universitaria di Modena.
La ricerca del gruppo degli ematologi modenesi è sostenuta oltre che dai fondi della Regione Emilia Romagna anche dai fondi erogati dall’ A.I.R.C, e da quelli della comunità Europea. “Esiste un rete di 29 Laboratori estesa a tutti i Paesi Europei impegnati nello studio delle cause virali e batteriche dei tumori umani ed animali, il cui acronimo è INCA (Infections and Cancer) ed il nostro laboratorio ha avuto il riconoscimento di essere uno dei due soli laboratori a rappresentare l’Italia in questo sforzo congiunto. Una menzione speciale va infine all’associazione A.I.L. ONLUS, sede di Modena che non manca mai di sostenere l’attività dell’Ematologia Clinica e di Laboratorio del Policlinico di Modena.
I risultati di questo studio hanno un potenziale interesse anche per i pazienti affetti da infezione da HIV. “La popolazione dei pazienti con infezione da HIV è notoriamente a rischio di infezioni virali, talvolta molto gravi, e nel nostro Centro, grazie alla stretta collaborazione con il Servizio di Virologia, ed la Laboratorio di Ematologia del Policlinico, abbiamo sviluppato una intensa attività di monitoraggio clinico di questi pazienti – interviene il Dr Giovanni Guaraldi, ricercatore della Divisione di Malattie Infettive del Policlinico – “La peculiarità del nostro lavoro è che siamo in grado di raccogliere esperienze cliniche e dati immunologici e molecolari sia dai pazienti con infezioni da HIV, che dai pazienti trapiantati di organo solido, alcuni dei quali affetti anche da infezione da HIV. Ci auguriamo che questo possa permetterci di capire meglio le differenze biologiche piu’ fini tra queste due popolazioni di pazienti immunocompromessi (HIV e trapiantati) che solo apparentemente sono uguali, e quindi di identificare misure terapeutiche piu’ specifiche ed individuali”.
Gruppo di ricercatori:
Primi autori: Prof. Mario Luppi, Prof. Giuseppe Torelli, Dr Leonardo Potenza, medico specialista in ematologia, e dottoressa Patrizia Barozzi, biologa.
Altri autori: Dr Michele Masetti, Dr Fabrizio Di Benedetto, Prof. Giorgio Enrico Gerunda (Centro Trapianti), Dr Giulio Rossi (Struttura Complessa Anatomia Patologica), Dr. Giovanni Guaraldi, Dr Mauro Codeluppi e Dott.ssa Stefania Cocchi (Struttura Complessa di Malattie Infettive), Dott.ssa Monica Pecorari, Dr William Gennari, e Prof.ssa Marinella Portolani (Struttura Complessa Microbiologia e Virologia), Dott.ssa Tiziana. Lazzarotto e Prof.ssa Maria Paola Landini dell’Unità di Microbiologia dell’ Ospedale S. Orsola di Bologna.